Tuesday, May 30, 2006

Le parole di Sofri

Per adesso non torno. Tornano però le parole di Sofri. «La vita che continua. Le rondini, per esempio. Leggevo sui giornali che non arrivavano più, che ne sarebbero arrivate sempre meno. Però da me la prima coppia è tornata già con un azzardato anticipo, il 9 aprile, e ora è pieno, e le nidiate hanno già preso il volo. Leggevo dell’aviaria, di un allarme comprensibile e umano, ma con una specie di distrazione rispetto all’eventualità di un cielo malvisto e vuoto di uccelli. Seguo gli assidui convegni di Ahmadinejad – “La montatura dell’Olocausto”, “Il mondo senza sionisti”… – e immagino un mondo senza uccelli e senza ebrei, così, per sventare il contagio. Sui giornali di sabato ho letto dell’allenatore della squadra olimpica irachena di tennis, Ahmed Rashid, e dei due giocatori, Nasser Ali Hatem e Wissam Adel Odah, che sono stati ammazzati a Baghdad perché indossavano i calzoncini corti. Ho letto anche che secondo genetisti inglesi è nato prima l’uovo che la gallina. Mi ricordo di Sarajevo, quando all’improvviso riusciva ad arrivare ai brulli mercatini una fornitura umanitaria di uova. Si scherzava: è morto prima l’uovo o la gallina? La vita che continua: ci sono le lucciole fra le piante, le stelle in cielo. In galera – 62 mila persone, al momento: ma lasciate che la Cirielli lavori, e vedrete che meraviglie – niente cielo stellato, niente lucciole, occhi sbarrati sul soffitto, o sulla branda di sopra. Non passa giorno – non passa notte – senza che ci pensi, alla galera. Non per solidarietà, per malattia. Fuori, me la prendo per le cose più diverse. L’Olanda non doveva perdere Ayaan Hirsi Ali, comunque davvero si chiamasse. L’Italia doveva convocare Lucarelli. Prodi doveva istituire un ministero per il Nord, con un ministro del Nord, non so, Illy. Guardo le facce in giro, ora che posso andare in giro, e troppe mi sembrano, con tutto il rispetto, brutte e arrabbiate, anzi nemmeno arrabbiate, seccate, risentite. Specialmente quelle delle persone che guidano l’auto e parlano da sole. Poi torno e mi guardo allo specchio, temendo che anche la mia sia così, seccata, rancorosa. La vera differenza sono gli specchi. In galera non ci sono, uno non si vede per anni, poi viene fuori e non fa che incontrarsi, nelle vetrine, nei bar, nei bagni, e spesso non si riconosce e trasale, e poi si volta di qua e di là, si guarda e si riguarda, di fronte, di profilo, fa le facce, muove le gambe, così, per sgranchirsi, per riabituarsi».

Followers